Italia: Su una sentenza e qualcosa d’altro

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Ricevuto 29/03/2020

Italia: Su una sentenza e qualcosa d’altro. Un testo di Marco dal carcere di Alessandria

Non nascondo una certa monomania. Ho spesso avuto a che fare con la repressione. L’ho subita, affrontata, malamente provando a capirci qualcosa. Ne ho scritto per anni sulle riviste, non fosse altro perché riguarda personalmente me ed altri compagni. Per ironia della sorte mi ritrovo da qualche anno a far lo stesso, ma in qualità di prigioniero e assieme ad altri nella stessa condizione, sull’indagine che ha portato all’arresto mio e di vari altri compagni ed alla condanna di cinque di noi. Farei volentieri a meno di un simile protagonismo, ma ci tengo a tenere informati tutti i compagni. Ci tengo perché un processo è una resa dei conti di varie esperienze sulle quali ogni tanto è bene tornare a discutere per non lasciarle cadere al livello di un nozionismo futile. Nel processo cosiddetto “Scripta Manent” è confluito di tutto. In un anno e mezzo di udienze – per non parlare della quantità di atti depositati – sono state trattate ovviamente le biografie personali – degli imputati ma non solo – ci sono state digressioni storico-sbirresche sull’anarchia, si è discusso dei precedenti giudizi contro gli anarchici, delle pratiche armate – passate e presenti – di esperienze editoriali, di piazza… “Un intreccio, talvolta inestricabile”, così esordisce il giudice nella premessa delle motivazioni di sentenza. È già una buona notizia sapere che l’anarchia risulti incomprensibile a donne e uomini di legge. Ma vediamo cosa scrivono a conclusione del primo grado del processo. [Tutto ciò che si trova tra virgolette (” “) è tratto dalle motivazioni della sentenza].

Innanzitutto, la FAI [Federazione Anarchica Informale]. Per descriverla in sentenza si ricorre all’insiemistica. C’è un insieme più piccolo che risponde ai canoni di un’associazione sovversiva-terroristica vera e propria, dotata di struttura stabile, durevole nel tempo, che è “sovrastante rispetto alle persone e ai gruppi che ne fanno parte”. Questo è “la FAI-associazione”. C’è poi un insieme più grande e che contiene il primo. L’insieme grande è come la FAI-associazione vuol presentarsi al pubblico, ovvero come strumento esistente solo nel momento dell’azione, capace di comunicare tramite testi di rivendicazione e senza conoscenza diretta. Ha quindi quelle caratteristiche che è possibile ritrovare sui vari comunicati a firma FAI, dalla sua nascita a tutt’oggi, così come nelle dichiarazioni e nel dibattito attorno ad essa fatti dai compagni. Al suo interno ci sarebbero, oltre alla FAI-associazione, anche le varie cellule FAI “autorizzate dai creatori della sigla ad utilizzarla, ma che non fanno parte della struttura FAI”. Quest’insieme è quello che il giudice chiama “FAI-metodo”, ritenendolo una maschera utilizzata dall’associazione al solo scopo di proteggersi dalla repressione. Questo perché la FAI-metodo non risponde, al contrario della FAI-associazione, ai canoni dell’articolo 270 bis del codice generale. Con questa maschera l’associazione si sarebbe fatta beffe di sbirri e compagni creduloni, un po’ per pararsi il culo, un po’ per servirsi dell’azione di “lupi solitari”inconsapevoli che non fa mai male.

Questa visione dell’anarchia, a metà strada tra un settarismo alla Babeuf e la vigliaccheria – visione mai emersa nel corso del dibattimento – si presta ad essere una scappatoia giudiziaria per evitare al giudice di doversi confrontare con tutti i precedenti giudizi assolutori riguardanti la FAI in ordine al reato di 270 bis. Non vengono considerati poiché in tutti quei giudizi si sarebbe giudicata la FAI-metodo.

Un ulteriore insieme, comprensivo dei due appena descritti nonché di altri gruppi FAI presenti al di fuori dello Stato italiano, è quello denominato FAI-FRI, a sua volta ricompreso nell’Internazionale Nera.

Per dare una base minima alla teoria degli insiemi, l’assioma a cui si rifà la sentenza è la giurisprudenza più recente in tempi di terrorismo islamico, di cui è lo stesso giudice uno dei più ferventi produttori, almeno in provincia di Torino, essendo spesso chiamato a decidere della sorte di qualche apologeta via Facebook. Da qui il riferimento ai lupi solitari, al “terrorismo individuali tipico della matrice islamista, ma rinvenibile anche in quella anarchica, improntato ad un modello orizzontale”. Il parallelo prosegue riconoscendo tanto all’ISIS quanto alla FAI un orizzonte di lotta così vasto da trarre giovamento da “qualsiasi atto di violenza e terrorismo” e da ottenere contributi anche da sconosciuti.

Per alcuni condannati, già sottoposti in passato a processo per 270 bis relativamente alla FAI, viene riconosciuta l’esclusione di un secondo giudizio per il periodo già preso in esame nelle precedenti inchieste. Così l’associazione risulta a singhiozzo, operante solo per determinati segmenti temporali. La gambizzazione di Adinolfi rientra così in un periodo di inoperatività di Alfredo e di operatività di Nicola. “Un intreccio inestricabile”, appunto, da cui il giudice sembra uscire più confuso di quanto non apparisse già nella sua premessa.

I periodi di inoperatività sono quindi coperti da precedenti giudiziari assolutori, eppure il giudice torinese arriva in larga parte a condannare proprio rivalutando elementi già ritenuti ininfluenti in quegli stessi giudizi. Ritiene possibile farlo solo ora perché “esclusivamente gli attenti analisti della digos di Torino” avrebbero finalmente permesso di leggere in maniera unitaria il tutto.

Grande risalto viene dato ad uno scritto dei tempi del processo Marini a firma di vari compagni, tra cui alcuni degli attuali imputati. Scritto in cui il giudice intravede il pensiero FAI in germe. Paradossalmente, dunque, a suo modo di vedere negli anni ’90 alcuni degli odierni condannati avrebbero pubblicamente espresso in un testo firmato con nomi e cognomi l’esigenza di dotarsi di un’organizzazione armata, mentre dal 2003 in poi, in testi anonimi diffusi attraverso la FAI, eviteranno di sbottonarsi troppo per timore di subirne le conseguenze.

Questo testo, assieme alla “visione complessiva” (ironicamente personificata dallo sbirro, tuttofare nell’inchiesta, di nome Quattrocchi) della digos torinese, permetterà di trasformare, come dicevo, in “indizi gravi” vecchi elementi già vagliati e scartati in altre indagini ma che portano ora, tra le varie cose, a riconoscere Alfredo come promotore di uno dei gruppi fondatori della FAI, la Cooperativa Artigiana Fuoco e Affini (occasionalmente spettacolare). Nello specifico ciò avviene ripescando una Perizia del DNA già scartata da un altro giudice. Da qui, a cascata, col medesimo procedimento e ritenendo “contatti qualificati” le relazioni tra compagni, vengono dedotte le restanti condanne in merito all’associazione. Cinque in tutto.

Stando alla sentenza, questo nucleo di cinque persone avrebbe mantenuto col resto del mondo relazioni su un altro livello, più subdolo, quello in cui la FAI si presenta per ciò che non è, camuffandosi e facendosi scudo di altri compagni ignari, così nelle redazioni delle riviste come nell’ampio mondo di azioni rientranti nella FAI-metodo.

A proposito di riviste e blog, l’istigazione a delinquere non viene riconosciuta perché per il giudice è stata posta in essere attività di propaganda sovversiva, reato ormai abrogato.

Per quanto riguarda il Fronte Rivoluzionario Internazionale “mancano elementi dimostrativi dell’esistenza d’un organismo plurisoggettivo in grado di avere una volontà autonoma rispetto a quella degli individui o delle singole associazioni nazionali”. Si riconosce che la comunicazione tra gruppi sia avvenuta solamente tramite l’azione e senza conoscenza reciproca, escludendo per il FRI la rispondenza ai canoni del 270 bis c. p..

Ad Alfredo viene riconosciuta la “Operazione parchi puliti” della Cooperativa Artigiana Fuoco e Affini (occasionalmente spettacolare) contro quelli che all’epoca erano denominati CPT (attentato alla sede dei RIS di Parma + pacco bomba a Cofferati), sebbene venga assolto per il reato di “attentato terroristico” – ma condannato per “fabbricazione, detenzione e porto in luogo pubblico di un ordigno esplosivo” – nel caso di Parma perché la bomba trovata inesplosa aveva l’interruttore posizionato su OFF. Gli vengono riconosciuti anche le tre fasi della “Operazione FAI DA TE”, sempre contro i CPT, della RAT (attentato alla Scuola Carabinieri di Fossano, plichi esplosivi alla Coema, a Chiamparino e Fossati, tre ordigni esplosivi al quartiere Crocetta di Torino). E’ condannato come promotore dell’associazione per i segmenti temporali dal 2003 all’agosto 2007 e dal 23 ottobre 2013 ad oggi. Viene assolto per i plichi esplosivi contro i CPT della Narodnaja Volja. Venti anni di carcere.

Anna è condannata a 17 anni. A differenza di Alfredo viene assolta anche per la “Operazione parchi puliti”. Inoltre, per entrambi cambia la qualificazione della strage per gli attentati di Fossano e della Crocetta. Da strage politica passa a strage comune. Questo perché, si legge in sentenza, “un soggetto, anche se avente la qualifica di pubblico ufficiale, non può rappresentare la personalità dello Stato e un attacco al singolo non può automaticamente trascendere in un attacco allo Stato”.

Nicola è condannato a 9 anni come promotore dell’associazione per l’intero arco temporale, dal 2003 ad oggi.

Io e Sandro veniamo condannati a 5 anni come partecipi. Sandro per l’intero periodo, io dal 18 maggio 2010 ad oggi.

Per la bomba al tribunale di Civitavecchia del Comitato Pirotecnico per un anno straordinario, vengono assolti Francesca e Alessandro.

Assolti da tutti i capi d’imputazione 18 compagni e compagne.

Per quanto riguarda la consulenza portata a processo dall’accusa non viene dato alcun valore a quella linguistica che per assurdo è proprio quella ad aver ispirato il nome dell’inchiesta. Da quella grafologica se ne ricava l’impossibilità di riconoscere l’autore d’uno scritto normografato, mentre le “media probabilità” di individuare quella di uno manoscritto. La perizia DNA dell’accusa per l’attentato di Parma, come detto, viene accolta.

Finito il primo grado Sparagna redige il suo ricorso in appello contro la sentenza facendosi andare bene la struttura associativa delineata dal giudice, sebbene stravolga completamente quella da lui impostata in ipotesi d’accusa. Nel farlo passa dal contegno degno d’uno zerbino e riverente verso la corte mantenuto nel corso del dibattimento a quello stizzito d’un preadolescente bullizzato a cui han sottratto il giocattolino. Nel suo isterismo chiede di ascoltare in secondo grado qualche altro testimone in aula, oltre che di acquisire la documentazione dell’autorità giudiziaria greca riguardante le azioni realizzate dalle CCF e le sentenze contro di esse, a partire dal 2011. Poi ritiene di non doversi concedere circostanze attenuanti generiche agli imputati, visto il comportamento aggressivo mantenuto in aula e qualche offesa rivolta al codice penale, alla persona dello stesso pm nonché allo sbirro Quattrocchi. Per il resto riporta in toto le accuse del primo grado. Dunque, fa appello anche contro la differente qualificazione della strage, oltre che contro l’associazione a tempi alterni. Uniche varianti: ad Erika non ha richiesto la partecipazione ad associazione sovversiva ma solo l’istigazione per CNE ed Anarhija; nessun appello contro Carlo, Patrizia e Alessandro Settepani. Inoltre, nel timore che gli sfugga di mano una delle inchieste che gli han fatto guadagnare la promozione alla Direzione Nazionale Antimafia, o nella brama masochistica di sentirsi rivolgere qualche nuova offesa anche in secondo grado, Sparagna ha chiesto di far la parte del sostituto procuratore generale in corte d’appello, dunque di portare avanti personalmente l’accusa anche in secondo grado probabilmente nella speranza di riuscire a portare in cassazione una struttura associativa più armonica e senza soluzione di continuità rispetto a quella emersa dal primo grado per far quadrare due conti senza badare troppo alle forme.

Finito questo resoconto ci tengo a dire ancora due cose per non far sì che una condanna resti un mero dato meritevole al massimo di essere divulgato a scopo informativo.

Non dovrebbero spaventare né la gravità di una sentenza, né l’incasellamento nel codice penale delle esperienze messe all’indice. A Torino, con l’aprirsi del processo d’appello, torneranno ad essere sotto processo oltre vent’anni di storia, teorie e pratiche dell’anarchia. Fa piacere un’aula piena di compagni perché è il segnale d’un interesse per ciò che vi sta avvenendo e un modo per non lasciare che un processo si riduca a una questione personale, a un accidente della vita.

Non lo dico ragionando in termini di difesa. Pur volendo bisogna essere degli illusi a pensare di scardinare un processo con una presenza di pubblico. Lo dico invece perché nel tempo c’è il rischio che la videoconferenza porti a disertare le aule per il motivo ben più banale di non aver modo di interagire coi prigionieri. È forse in parte ciò che è successo nel nostro caso in primo grado, dove la videoconferenza ha alcune volte demotivato i solidali mentre i prigionieri aggiornavano i compagni fuori sul procedere delle udienze.

Se si vuol ragionare in termini di occasioni, un evento repressivo può anche essere uno stimolo, non certo gradevole, per discutere o litigare di mille cose. Nella mole di carte portate a processo dall’accusa non c’è solo l’ossessione di un p. m., di chi lo manovra o dei suoi sottoposti, ma una miriade di argomenti e di esperienze tangibili che il movimento anarchico ha saputo produrre. Interessarsi a tutto questo può essere un’occasione di crescita, più utile dell’ansia di mostrarsi compatti per non sfigurare davanti alla repressione.

L’inchiesta “Scripta Manent” prende a pretesto il dibattito di quei compagni che al tempo di un altro processo, quello detto Marini, seppero continuare a parlare d’anarchia senza calcolatrice tra le mani. E non fu polemica sterile. Perché se siamo abituati al fatto che i processi producono degli scazzi, è altrettanto vero che questi dovrebbero essere accompagnati da dibattiti, assolutamente vitali per un’anarchia che non voglia andare avanti per inerzia.

Qui dentro, in questi anni, si sono avvertiti più i primi dei secondi, a quanto è dato sapere a livello pubblico. Abituati ad essere scandagliati ad ogni alito di vento, si sta perdendo il senso della polemica. Le critiche sono molto spesso ritenute attacchi personali, controproducenti sotto molti punti di vista, non ultimo quello repressivo. Del resto, proprio dei miserabili come Sparagna vorrebbero forzarci a mantenere un profilo basso almeno quanto il senso critico. Già questo dovrebbe bastare a spingerci, per testardaggine, a dire la nostra. Ma non è il motivo principale.

La storia è piena di polemiche quanto di silenzi. Tra le prime, ad esempio, per parlare di rivoluzione anche in duri tempi di guerra tra gli stati, Malatesta polemizzava, nella sua “Risposta ai 16 anarchici di governo” – e basta il titolo per cogliere i toni della polemica – contro i firmatari del manifesto “interventista” di Kropotkin, Malato, Guillame, Cornelissen, Grave… Tra i secondi si può citare il diffuso lasciar correre di molti anarchici alla celebre accondiscendenza di Berkman e Goldman col bolscevismo fino a quando non arrivò la strage di Kronstadt. Per carità, non è mia intenzione ricercare precedenti illustri. Ma visto che spesso ci si sente urtati dalle divergenze a furia di vivere nelle falsate rievocazioni di un passato idilliaco in quanto a relazioni tra anarchici, voglio solo dire che il quieto vivere acritico può esser foriero di disastri più di quanto possa fare un’accesa e sincera polemica. Sono quindi assolutamente favorevole agli scazzi perché motivo di crescita per tutti i compagni, purché non se ne avvertano solo gli effetti negativi ma anche i vitali dibattiti che li generano.

Di temi su cui continuare a farlo ce ne sarebbero parecchi. La FAI è sicuramente un argomento scomodo, quasi innominabile. Le remore a nominarla sono assolutamente “super partes”, investono quasi per intero il movimento anarchico italiano. Si capisce benissimo che alcuni silenzi attorno al processo derivino proprio dalla cappa di ansie e paure che gli sbirri vorrebbero creare attorno ad essa. Eppure, se guardiamo alle molte inchieste partite in questi anni vediamo che trattano di azioni antimilitariste, contro i CPR, in solidarietà agli anarchici prigionieri. Se guardiamo alle lotte in corso, ai cortei, ai blocchi e alle manifestazioni pubbliche notiamo, come è ovvio, il ricorrere di tematiche simili.

Ora guardiamo al processo “Scripta Manent”: ben tre sigle aderenti alla FAI realizzarono altrettante campagne contro gli allora CPT dal 2005 al 2007, la RAT festeggiò a suo modo il 2 giugno colpendo una caserma in un impari confronto con le bombe gettate dall’Occidente su Iraq e Afghanistan, più altre azioni e riferimenti ai prigionieri e contro la repressione, sempre oggetto di questo processo. Dunque, anche qui, lager, militarismo, repressione tra gli obiettivi. Chi colpisce firmando FAI certamente non individua obiettivi alieni all’ambito anarchico, semmai si caratterizza per un certo approccio alla lotta.

Noto invece una certa difficoltà, all’interno di molte lotte pubbliche, ad accennare a questo processo, ai temi trattati, alle campagne portate avanti e agli obiettivi colpiti, sebbene siano temi che ricorrono in quelle stesse lotte.

Va detto che quei compagni che le portano avanti non si sono assolutamente tirati indietro dal portare solidarietà ai colpiti dall’inchiesta “Scripta Manent”, pur tacendone in quelle lotte. Quindi c’è stato una sorta di sdoppiamento, una solidarietà a seconda del contesto.

Non è una questione di convergenza di lotte, ma di modi di approcciarle o eluderle. Né voglio apparire ecumenico a scoppio ritardato, tutt’altro. E’ solo triste dover rilevare fino a che punto le lotte particolari abbiano per fine le lotte stesse. Non riescono a guardare al di fuori di sé stesse, quasi accecate dalla visione ristretta, quando al contrario il patrimonio anarchico ha molto da offrire. Un patrimonio di cui si dovrebbe essere orgogliosi, sempre e ovunque, invece di ritenerlo inopportuno alle volte. Non sono certo gli spunti che mancano, semmai la buona volontà di saperli cogliere e diffondere.

Fortunatamente la solidarietà non ci è mai mancata in questi anni, da parte di nessuno. Questo va detto con chiarezza. Semmai è stata più intimorita dal fatto di poter essere strumentalizzata dalla repressione anziché interessata ad esprimersi liberamente anche coi suoi benefici contrasti intrinseci. E’ proprio questo contrasto di opinioni il miglior antidoto all’appiattimento del pensiero. Dunque ben venga.

Bisogna forse scrollarsi di dosso il timore di parlare per paura che non sia il momento adatto perché gli sbirri leggono, ascoltano, osservano… E’ una cosa, questa del controllo, che succederà sempre. L’unico modo per non girare in tondo attorno a dove vuol restringerci la repressione è non adeguarsi ad essa. Per tornare a a parlare di azione, di metodo, di strumenti… o più semplicemente per evitare di ammutolire definitivamente.

Marco

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